08 Ott Dimmi cosa fai e ti dirò chi sei
Perchè tendiamo a identificare noi stessi e gli altri con la professione svolta e come possiamo ridefinire i nostri spazi di crescita personale al di là del lavoro.
Il lavoro che svolgiamo ci identifica al punto che potremmo parafrasare il celebre aforisma di Goethe, ormai entrato a far parte del patrimonio dei proverbi popolari, “Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei” con “Dimmi cosa fai e ti dirò chi sei”. Forse non abbiamo nemmeno bisogno di parafrasare in quanto, non tutti lo sanno, la frase continua con “…e se so di cosa ti occupi saprò che cosa puoi diventare”.
Quante volte ci è capitato, facendo conoscenza di qualcuno, di porgere o di sentirci rivolgere la domanda “Che lavoro fai?” in una delle sue infinite declinazioni? È una delle scorciatoie mentali che inconsapevolmente adottiamo per inquadrare meglio la persona di cui stiamo facendo conoscenza e scoprendo il lavoro che svolge cerchiamo di farci un’idea meno approssimativa di questa persona, perché ci risulta più facile pensare che qualcuno che si occupa per la maggior parte della sua giornata di un determinato compito abbia determinate caratteristiche di personalità, piuttosto che altre.
Psicologia del lavoro totalizzante
Il lavoro in epoca post-moderna è arrivato a pervadere ogni aspetto della vita delle persone, non è solo una questione di tempo occupato, ma un tema più profondo legato a stili di vita, possibilità, progetti personali, sviluppo di conoscenze, competenze, abilità relazionali, influenze così pervasive da portarci inconsapevolmente a semplificare l’identità nostra e degli altri attraverso le caratteristiche, reali o supposte, del ruolo lavorativo ricoperto. Laboro ergo sum. Non avere un lavoro, oggi, significa non essere nessuno.
In alcuni casi si raggiungono situazioni estreme, come quella descritta in una recente intervista da Marissa Mayer, attuale AD di Yahoo, la quale ha dichiarato che nel suo precedente impiego presso Google lavorava 130 ore a settimana, cioè 18 ore al giorno, weekend compresi, spesso fermandosi anche a dormire in ufficio. Per la Mayer bisogna sapersi organizzare bene: “Pianificare quando dormi, quando fai la doccia e anche quando vai in bagno”, tutto in funzione della massima efficienza lavorativa. Rimanendo in campo informatico Steven Levy nel suo libro “Hackers – gli eroi della rivoluzione informatica” cita l’esempio di altri noti pionieri dell’informatica i quali, alle prese con lo sviluppo del primo sistema operativo della storia, decisero che la giornata di 24 ore era troppo breve per loro, optando quindi per una programmazione del lavoro su cicli di 36 ore in cui c’erano 24 ore di lavoro consecutivo e 12 di riposo, beffandosi di ogni convenzione sociale, lavorativa e anche della naturale alternanza giorno-notte. In situazioni del genere risulta difficile immaginare che oltre alla vita lavorativa sia possibile avere anche una vita privata, in quanto vita e lavoro vengono irrimediabilmente a coincidere.
Il caso limite può essere rappresentato da quello, che fortunatamente è solo un romanzo, di Patrick Bateman, protagonista del libro di Bret Easton Ellis “American Psycho”, poi portato sul grande schermo da Mary Harron con l’omonimo film del 2000. Nella storia narrata tutte le giornate di Bateman sono occupate dall’ossessione di essere un lavoratore di successo, laureato ad Harvard, broker di Wall Street dedito al lusso e all’ostentazione del proprio status sociale in ogni minimo dettaglio, tanto da rischiare il collasso quando realizza che un suo collega ha un biglietto da visita più bello del suo. Le sue attività diurne diventano talmente maniacali ed ossessive da richiedere una valvola di sfogo altrettanto estrema nella vita notturna. Quello che nessuno sa, infatti, è che di notte Bateman si trasforma in un feroce serial killer. Il libro, seppur opera di fantasia, muove in modo celato una profonda critica sociale, mostrando la compulsività a cui ci sta portando la rincorsa ad una vita lavorativa eccellente che ci permetta di apparire come persone di successo.
Cosa c’è (e cosa non c’è) oltre al lavoro
Quali sono i motivi che ci spingono a semplificare la realtà in questa direzione? Perché è più facile identificarci e identificare gli altri con la professione svolta?
Carl Gustav Jung afferma: “Identificare qualcuno con la sua professione o ruolo lavorativo è certamente una possibilità attraente. Altrimenti perché così tanti uomini si accontenterebbero di non avere nient’altro che questo valore generico che la società assegna loro? Cercare una personalità dietro a questo guscio sarebbe infruttuoso. L’apertura del guscio sarebbe un’azione potente, ma dentro ad esso potremmo trovare solo un piccolo miserabile uomo. Questo è il motivo per cui la professione, o qualsiasi cosa questo guscio esterno possa essere, è così attraente: offre una facile compensazione dell’insufficienza personale” (C. G. Jung, Collected Works, Vol. 7).
Non si tratta quindi di una mera semplificazione razionale, un processo in cui sfruttiamo la sola domanda “Cosa fai?” per raccogliere in modo semplice e veloce alcuni elementi che ci permettono, o ci illudono, di definire in modo più o meno approssimativo le caratteristiche di personalità del nostro interlocutore. La questione è probabilmente più profonda: ci limitiamo a definire e definirci sulla base della professione svolta perché è molto più comodo limitarci all’etichetta dignitosa, comunemente diffusa, del ruolo lavorativo piuttosto che approfondire e scoprire che a volte oltre al lavoro c’è ben poco e questo succede perché spesso abbiamo paura di vivere le nostre vite attivamente e preferiamo aderire passivamente allo stile di vita costruito intorno al lavoro che svolgiamo.
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